Tekkonkinkreet - Soli contro tutti è un film d'animazione giapponese del 2006, diretto dal regista americano, ma giapponese d'adozione, Michael Arias. E' tratto dall'omonimo manga di Taiyo Matsumoto, autore che, vi ricordiamo, sarà ospite a Lucca Comics & Games 2017.
 
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Bianco (Shiro) e Nero (Kuro) sono due giovanissimi fratelli orfani, molto legati l’uno all'altro, che vivono di furtarelli e scontri con altri monelli e piccoli criminali a Città Tesoro, un enorme e caotico distretto di una cosmopolita città giapponese non meglio identificata. Nero è silenzioso, introverso, aggressivo e si riferisce a quel disordinato agglomerato di case come "la sua città". Tendenzialmente solitario, ha fatto della protezione del più debole Bianco la propria ragione di vita: quest'ultimo, infatti, è un bambino espansivo, solare, sensibile e molto emotivo, facile al pianto come al sorriso.
I due, noti come "I Gatti" per via della loro agilità, costituiscono un ostacolo per un losco e ambiguo affarista straniero, intenzionato, con l'aiuto di yakuza e finanzieri disonesti, a trasformare Tesoro in un gigantesco parco divertimenti.
Contro i due ragazzini, dunque, vengono inviati tre feroci e brutali assassini, che di umano hanno ben poco. In seguito al grave ferimento di Bianco, egli viene preso in custodia dalla polizia per protezione, mentre Nero, ormai privo del sostegno morale e psicologico di Bianco, viene lasciato solo ad affrontare il misterioso Minotauro.

Tekkon Kinkreet si configura già dalle primissime sequenze come un anime pesantemente influenzato dallo stile di disegno e dall'animazione occidentale e, in particolare, europea. Probabilmente, se non fosse stato per i nomi dei personaggi e per alcuni particolari dell'ambientazione (insegne, ecc.) mi sarebbe stato difficile credere di trovarmi di fronte ad un prodotto nipponico (seppur con un regista americano).
In particolare, il design dei personaggi, costituito da poche linee che però non mancano di caratterizzare inequivocabilmente ogni membro del cast, unito a sfondi dettagliati e ad un uso creativo della prospettiva, mi ha immediatamente ricordato alcuni prodotti animati francesi.
 
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Ciascun personaggio, Nero e Bianco su tutti, è ben approfondito psicologicamente e, anche quando lo spazio ad esso dedicato è minimo, riesce comunque ad esprimere se stesso in maniera eccellente e a risultare completo, reale e affascinante. Magistrale l'interpretazione di Suzuki, attempato boss della yazuka che non può fare a meno di guardare con occhi colmi di malinconia e nostalgia i cambiamenti che sconvolgono Città  Tesoro, il mondo in cui è cresciuto e si formato. Tuttavia, è Bianco il vero faro di questa storia: con la sua disarmante spontaneità e la sua perspicacia, con i suoi vaneggiamenti e le inquietanti premonizioni, egli manifesta un’unione unica e speciale non solo con Città Tesoro, ma con le energie dell’universo, che recepisce in base alla propria fervida immaginazione e da cui è sollevato o atterrito.
Il legame tra i due protagonisti è quanto di più profondo si possa immaginare e rappresentare: la forza del loro rapporto è evidente nel sostegno reciproco, nei loro sogni di un futuro assieme, lontano dalla povertà e dalla violenza, e nella totale disperazione in cui si cadono dopo essere stati separati. Bianco, nonostante lo strazio iniziale, riesce in parte ad adattarsi, grazie alla propria natura ingenua e allegra, senza però smettere di pensare a Nero e al fatto che entrambi siano indispensabili alla reciproca sopravvivenza. Nero, d'altro canto, dopo aver perso la sua unica fonte di luce e speranza, viene risucchiato in una spirale di ferocia belluina, precipitando in una sorta di stato catatonico, ormai ridotto ad un relitto umano. Culmine di questa discesa all'inferno è l'incontro con la quintessenza dell'oscurità e della malvagità: il famigerato Minotauro. La lotta interiore di Nero, dilaniato tra la fedeltà a Bianco e il totale abbandono ad un mondo di crudeltà, sofferenza e disperazione, è sicuramente la scena più suggestiva e spettacolare di tutto il film, qualcosa che andrebbe rivisto all'infinito; grazie ad un'atmosfera angosciante, vibrante e inquieta, trasmette alla perfezione il disturbante fascino che il Male può esercitare su una mente indebolita dagli stenti e dalla solitudine.
 

Città Tesoro è un sobborgo degradato realistico e, proprio in quanto tale, deprimente: abitato da persone disagiate e disilluse, conteso da gruppi criminali e bande giovanili, sporco e inquinato, rende bene l'idea di un complesso di edifici e anime con i giorni contati che si trascina lentamente verso la fine del proprio tempo, ricolmo di vita e allo stesso tempo apatico, incapace di reggere il ritmo incalzante del progresso. Invece, alcuni dei bucolici e pacifici paesaggi che compaiono nei sogni di Bianco (apnee subacquee e fantasie animate vivacemente dipinte) e alla fine del film, di una bellezza onirica tale da far dimenticare il dolore vissuto pochi minuti prima, si pongono in netto contrasto nei confronti di una realtà sordida e rugginosa.

Riguardo la componente tecnica: emblematico è il design dei personaggi, volutamente sgraziato e scarno, sia per quanto riguarda le fisionomie, delineate da pochi tratti essenziali e inconfondibili, sia per il vestiario e gli accessori. Al contrario, gli sfondi aggrediscono e soffocano lo spettatore con una moltitudine di dettagli e colori, in una grandiosa manifestazione di horror vacui. L’ambientazione, non mero contenitore della storia narrata, ma protagonista quasi senziente, è esplorata in ogni suo anfratto (dagli alti minareti ai vicoli più miserabili) da una regia alla costante ricerca di soluzioni sempre nuove e dinamiche: movimenti frenetici della camera nelle scene d’azione e di inseguimento e lenti o statici negli attimi più riflessivi, prospettive distorte, inquadrature dal basso e a volo d’uccello ed ampie panoramiche, che raffigurano Città Tesoro come un grottesca concrezione artificiale troppo grande e insostenibile per un mondo così piccolo.
 

Anche la computer grafica, cui si fa ricorso soprattutto negli sfondi e per alcuni particolari, è curatissima e si amalgama alla perfezione con il disegno tradizionale.
Le animazioni sono ottime, fluide e riescono a catturare alla perfezione l’essenza dei personaggi e della vicenda con il loro andamento leggermente sincopato.

La colonna sonora accompagna adeguatamente la vicenda in ogni circostanza, ma è talmente discreta da passare quasi inosservata, ad eccezione del penultimo brano, una melodia strumentale così gioiosa e rilassante che stringe il cuore. La seconda parte dei titoli di coda, invece, è dominata da “Aru Machi no Gunjou” (“A Town in Blue”), una canzone degli Asian Kung-Fu Generation che, per quanto orecchiabile, risulta poco affine ai toni generali della vicenda.
Di buon livello è anche il doppiaggio italiano, che, ad esclusione di un paio di performance sottotono (ma associate a personaggi molto secondari, quindi quasi impercettibili), gode di grandi interpretazioni, che contribuiscono a rendere Città Tesoro un microcosmo vivo e multiforme in cui si intrecciano drammi, sogni, paure e speranze, dove si incontrano e scontrano la fede in Dio e l’amore per i propri cari, la sete di sangue e l’avidità, legalità e crimine.
 
Tekkonkinkreet è un racconto visionario e surreale, di stampo intimo e raccolto, ma, allo stesso tempo, potente e universale: è la storia di due ragazzini in lotta contro il mondo intero e dell'umanità nella sua dimensione più generale e comprensiva, perennemente contesa  tra l'Oscurità, mai così allettante e disturbante, e la Luce, fioca e solitaria, ma sempre pronta a guidare fuori dal baratro chiunque vi sia precipitato. Tuttavia, è anche un monito per non dimenticare che la parte più irrazionale e violenta di noi è sempre in agguato nei recessi più profondi del nostro animo, in attesa di approfittare dei nostri momenti di debolezza per prendere il sopravvento.