Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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I Giapponesi amano Sherlock Holmes. E non gli do torto; il personaggio nato dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle è da quasi 150 anni ormai non solo l’icona del giallo deduttivo, ma pure una figura capace di superare i limiti del suo genere e di imporsi anche in epoca moderna come base per la creazione di produzioni (che vanno dai film alle serie televisive) che reinterpretano il personaggio in chiave contemporanea. Anche gli anime non si sono sottratti recentemente, ma anche negli anni precedenti, a quest’operazione di ‘sfruttamento’ di un marchio col quale è molto facile familiarizzare, ma ahimè devo dire, da holmesiano convinto, che i risultati di queste riscritture raramente mi hanno soddisfatto e molto spesso deluso, e, purtroppo, “Kabukichō Sherlock”, conosciuta anche come “Case File nº221: Kabukicho”, rientra tra queste.

Questa rivisitazione, come suggerisce il titolo, è ambientata a Kabukichō, una frazione del quartiere speciale di Shinjuku, a Tokyo, celebre per la sua forte concentrazione di love hotel, night club e locali a luci rosse in generale. Uno di questi club è il Pipecat gestito dalla Sig.ra Hudson, una drag queen molto celebre nel quartiere, che funge anche da base per la ‘casa dei detective’, un gruppo di sei investigatori chiamati a risolvere, dietro lauto compenso, i misteri più disparati. E tra questi spicca chiaramente il nostro Sherlock Holmes che, in compagnia del nuovo arrivato Watson, si ritroverà invischiato prima nella risoluzione di singoli casi e quindi in una trama orizzontale più ampia che coinvolgerà personaggi già noti come Jack lo Squartatore o la sua, in teoria, nemesi giurata Moriarty.

In questa scarna descrizione sono racchiusi già quelli che per me sono i principali pregi e, allo stesso tempo, i più gravi difetti di quest’anime. Un pregio è sicuramente la caratterizzazione dei personaggi, che trova un buon equilibrio tra il rispetto delle figure originali e una ricostruzione moderna che strizzi l’occhio anche alle commedie un po’ trash; Sherlock ad esempio è un uomo più giovane dell’originale, ma che condivide diverse caratteristiche con quest’ultimo: ha difficoltà a relazionarsi col prossimo, pochissimi amici, un difficile rapporto con le donne (qui dettato però più da timidezza che da una lieve misoginia) e un lato caratteriale istrionico e teatrale che, nel suo caso, si evidenzia quando si cimenta in prove di rakugo deduttivo (il rakugo è un genere teatrale tradizionale giapponese) durante la spiegazione delle sue deduzioni che hanno portato alla soluzione di un mistero. Anche gli altri personaggi ispirati direttamente dal canone originale conservano caratteristiche che possono accomunarli agli esemplari primigeni e soddisfare in questo modo le aspettative degli holmesiani in solluchero; di riflesso, e non è certamente un caso, tutti quelli inventati appositamente per la serie risultano decisamente più scialbi e dimenticabili. Ma se si dovesse giudicare questa serie solo dalla caratterizzazione dei personaggi, il mio giudizio su essa sarebbe molto più positivo; i problemi maggiori in questo caso stanno nella sceneggiatura e nella strada che ha deciso di intraprendere. L’inizio infatti mi aveva fatto intravedere una serie che si proponeva di adattare, in una chiave sicuramente anche più comica e un po’ trash, una parte dei racconti che compongono l’epopea holmesiana di Doyle, e il risultato, con comprensibili alti e bassi, mi aveva comunque piacevolmente impressionato. Nel momento in cui è stata introdotta una trama orizzontale invece sono cominciate le prime complicazioni, soprattutto nella seconda parte della serie, quando un’analisi psicologica scarna e deludente dei protagonisti, insieme ad alcuni episodi completamente originali poveri di contenuto sia comico che mystery, hanno dato vita a un anime che ha provato a cercare consensi in tante fasce di pubblico, finendo però per non accontentarne nessuna: chi voleva una serie leggera e divertente si è ritrovato con un polpettone improbabile di drammi familiari e personalità deviate da digerire; chi cercava un poliziesco thriller si è ritrovato un mix di azione povera e macchinazioni assurde da metabolizzare; chi, infine, e più grave motivazione a livello personale, si era avvicinato alla serie semplicemente per il nome che portava ha dovuto amaramente constatare che questo era solo uno specchietto per le allodole, visto che quest’anime avrebbe potuto avere lo stesso svolgimento sia che i protagonisti si fossero chiamati Holmes e Watson che Giovanni e Michele. Certo, è chiaro che quando metti il nome di Sherlock Holmes a un prodotto qualsiasi ti assicuri come minimo una certa dose di attenzione e, nel peggiore dei casi, comunque una curiosità in grado di attirare spettatori generici; ma se questi ultimi possono anche aver trovato piacevole il prodotto finale, chi era affezionato alle figure dei personaggi che portavano cotanto nome non può non aver storto il naso più di una volta, e io purtroppo (ma meglio dire per fortuna) faccio parte della seconda categoria.

Fortunatamente posso parlare in termini più lusinghieri dell’aspetto tecnico dell’anime, che sicuramente è pregevole in alcuni punti. La resa grafica della Production I.G., lo studio che ha prodotto l’anime originale, è davvero molto buona, sia nella riproduzione delle ambientazioni di una vibrante Kabukichō che nel character design dei personaggi, curato da Toshiyuki Yahagi, che ho trovato davvero molto bello, espressivo e particolare, una bella boccata d’ossigeno da questo punto di vista nel panorama dell’animazione giapponese. Il comparto sonoro fa il suo dovere nella colonna sonora di Takuro Iga, che si amalgama complessivamente bene alle scene che accompagna, ma quello che brilla particolarmente è il doppiaggio giapponese della serie, dove cito ad esempio per tutti, perché penso sia comunque la prova migliore, l’ottimo Katsuyuki Konishi (Diavolo in “Jojo - Vento Aureo” o Dreyfus in “The Seven Deadly Sins”), che ha doppiato il nostro Sherlock dotandolo di una personalità multiforme e con tante sfaccettature, credibile in ogni versione, da quella più seria a quella più apparentemente ridicola. Mi dispiace non poter dare un’opinione anche sul doppiaggio italiano, che è già disponibile, visto che la serie è stata trasmessa quasi in contemporanea col Giappone anche doppiata su Amazon Prime Video, ma ho preferito optare per il giapponese come prima scelta, vista anche la presenza di sequenze di rakugo e, detto onestamente, la serie non mi è piaciuta abbastanza da dargli una possibilità pure in italiano.

La mia non è una bocciatura clamorosa però, quanto piuttosto un rammarico su quello che poteva essere; la riscrittura dei personaggi in questa versione mi era parsa molto interessante e le ricostruzioni delle storie originali nei primi episodi mi avevano finanche entusiasmato, peccato che la sotto-trama che faceva da trait d'union lungo il resto degli episodi si sia rivelata deludente e per larghi tratti noiosa. Oltre che superflua, dal mio punto di vista.

8.5/10
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La terza serie del brand “Psycho-Pass” segue la scia tracciata dalla precedente trilogia “Sinners of the System”. La sua particolarità è la durata doppia degli episodi, otto per quarantasei minuti l’uno. Se inizialmente ero stata scettica sulla lunghezza, credendo mi avrebbero annoiata episodi eccessivamente lunghi, dopo nemmeno mezz’ora del primo mi sono resa conto di quanto in realtà, per una storia simile, la lunghezza doppia sia congeniale. Va inoltre detto che, per quanto non obbligatoria, la visione dei tre film del 2019 è consigliata per capire alcune piccole cose (e poi non sono male, quindi è tutto guadagnato).

Cerchiamo di andare con ordine senza però rivelare troppo.
I personaggi. Ormai abbiamo capito che “Psycho-Pass” è una serie quasi antologica, per cui ogni stagione abbiamo protagonisti differenti. Del vecchio cast infatti è rimasto poco, o così pare, mentre abbondano le facce nuove. I due nuovi ispettori della Prima Divisione sono Arata Shindō e Kei Michael Ignatov. Il primo un mentalista simpaticone raccomandato da Tsunemori, amico di lunga data del secondo che ha invece origini russe e ha un aspetto più serioso. Ad accompagnarli troviamo cinque esecutori, tra cui i vecchi Shō Hinakawa e Shion Karanomori. Personalmente mi sono affezionata molto ad alcuni personaggi nuovi, soprattutto quelli di Irie e Kei. In un modo o in un altro sembrano essere legati tutti da un passato comune, esecutori e ispettori a volte si scambiano i ruoli ed entrambi vengono direttamente e personalmente colpiti da quello che sembra essere l’antagonista della terza stagione, se di antagonisti si può parlare in “Psycho-Pass”. Ciò fa sì che tra la squadra si crei un bel legame, come si può vedere durante la festa di benvenuto o durante gli orari di servizio. Interessante inoltre come tutti in realtà non siano chi o come appaiono, e come agiscano più indipendente dal Sybil System rispetto al passato. Quest’ultimo infatti non ha più un ruolo centrale come le altre due stagioni, ma lascia spazio alla sensibilità degli investigatori e a un nuovo “sistema”. Arata e Kei ripetono spesso che il Sybil System non è tutto, non a caso il dominator ha un grilletto e non va in automatico. Visione che ci richiama alla memoria una certa Akane.

Vecchie conoscenze. La terza stagione è una frecciatina continua ai fan di vecchia data, che ritrovano discorsi o situazioni riguardanti la prima stagione. Ma non solo. Ho perso il conto delle volte che ho urlato di gioia nel vedermi comparire a sorpresa sullo schermo esecutori della vecchia Prima Divisione. Scene che a volte riconosco essere state puro fanservice, mentre altre sono fulcro della sotto-trama. Sì, perché dietro tutto quello che vediamo rimane un personaggio che appare rarissime volte, ma che intuiamo sapere tutto, e dio solo sa quale ruolo giocherà alla fine. Nell’ultimo episodio poi, proprio alla fine, lo spettatore non può che non essere emotivamente scosso: una scena dolce e nostalgica lascia amaramente spazio a una, dopo i titoli di coda, devastante. Il tutto accompagnato da una soundtrack calzante, a tratti emozionante e bellissima. Tuttavia non mancano momenti in cui, a mio avviso, la musica è fin troppo invadente, quasi fastidiosa, quando già la scena è piena di azione.

Finale. Se la mia recensione è sembrata più confusionaria del dovuto, lo si deve a tre fattori: non sono brava a spiegarmi in maniera ordinata; non volendo fare troppi spoiler, ho preferito censurare il novanta percento degli avvenimenti; la serie non si conclude con l’ottavo episodio.
Detesto le cose senza fine, ma sono fiduciosa nel film in uscita tra qualche settimana e nella possibilità di un’altra stagione in tempi ragionevoli (e non quattro anni come dalla seconda alla terza). Ho comunque dato un voto alto, perché reputo questa stagione più interessante delle altre. L’ho detto. Le varie tematiche che saltano fuori e i problemi legati al passato dei protagonisti mi hanno affascinato fin dai primi minuti. Temi come la religione, l’immigrazione e la politica (uno dipendente dall’altro) sono veri più che mai, avvicinando l’universo di “Psycho-Pass” ambientato nel lontano 2100 e qualcosa ai giorni nostri. La svolta sociale e fanta-politica di questa serie la rende per me migliore rispetto alle altre che, pur impegnate a livello morale, rimanevano legate al Sybil System e a un mondo ancora molto ancorato alla fantascienza.

Dunque, ho finito per scrivere molto più del previsto, considerando il fatto che non ho detto nulla. Il mio voto potrebbe sembrare troppo alto ad alcuni, ma non so essere cattiva, se mi mettono un personaggio come Kei Ignatov. Ho pianto, riso, gridato, mi sono arrabbiata e sono stata ingannata ripetute volte. Una montagna russa di emozioni e colpi di scena. Insomma, una serie che sa intrattenere e che tratta casi seri in maniera quasi impeccabile. Certo, dei difetti deve pur averli: alcune scene d’azione non sono poi granché e delle volte si ha la sensazione che tutto questo mistero sui “nemici” potrebbe portare a un grande buco nell’acqua. Alcuni avvenimenti poi, in un primo momento, paio interessanti solo per via del diretto coinvolgimento di uno specifico personaggio. “Psycho-Pass 3” è un anime incompleto ma che proprio per questo ti permette di pensare e ragionare su molte cose, dai casi ancora irrisolti della Prima Divisione, a cosa stia succedendo ai nuovi e vecchi ispettori, fino alla questione dei migranti nel mondo in questo ultimo periodo. Concludo col dire che, qualora il film in uscita non concludesse la serie oppure non venisse annunciata una nuova stagione, il mio voto calerebbe, perché, come sopracitato, detesto le cose senza un finale.

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Terminata la lettura del quindicesimo volumetto di «Bungo Stray Dogs», penso si possa fare una prima valutazione di questo manga, che nasce dalla storia di Kafka Asagiri e dai disegni di Sango Harukawa (entrambi alla prima serializzazione, iniziata nel 2012).
Le vicende narrate sono quelle dell'Agenzia di Detective Armati, al cui interno lavorano individui dotati di poteri sovrannaturali. L'Agenzia, sullo sfondo della città portuale di Yokohama, si scontra con l’organizzazione criminale denominata Port Mafia (e non solo con questa).

I volumi finora pubblicati mi hanno parecchio soddisfatta, è un’opera “leggera” che riunisce molte delle qualità che spero di trovare quando inizio a leggere una nuova storia: per prima cosa si tratta di una storia corale, perché Atsushi Nakajima, il ragazzo che compare nella prima scena, cacciato dall'orfanotrofio e che cerca di trovare il coraggio di derubare i passanti, è il protagonista, ma non è “sempre sulla scena” e intorno a lui si muovono molti personaggi che costituiscono un gruppo di individui decisamente “sopra le righe”, ognuno è eccentrico a modo suo. Sono personaggi ben scritti: per quanto “strambi”, ognuno risulta coerente con sé stesso (e ricorda un po’ «Durarara!!» per entrambi questi aspetti).
Una particolarità di «Bungo Stray Dogs» che è per me vera fonte di piacere nella lettura è senza dubbio quella dovuta al gioco dei riferimenti letterari: i personaggi hanno nomi di scrittori famosi, giapponesi e non, e anche i poteri paranormali dei personaggi sono legati, per il nome e per gli effetti, alle opere letterarie di quegli stessi scrittori. Ogni volta che viene presentato un nuovo personaggio è divertente cercare di indovinare quale sia la sua “specialità”.

Ben giocato è l’aspetto investigativo: nonostante la presenza di poteri sovrannaturali i casi spesso sono del tipo “giallo classico”: perché i poteri si conoscono prima e si possono fare ipotesi su come ognuno giocherà le carte a disposizione (e poi i casi con Rampo e Poe hanno anche un’aura da “super-classici”). Oltre all'azione molto spazio è dato anche alla strategia e ai giochi tattici, a improbabili (e interessanti) alleanze temporanee; gran mattatore per quest’aspetto è il mio personaggio preferito, Osamu Dazai: intelligente, ironico, cinico e con sprazzi di dolcezza inaspettata, con gran sangue freddo e con un che di inspiegato, di tetro che lo rende ancora più interessante. A quest’ultimo aspetto si collega un altro elemento che trovo vincente: i confini fra bene e male, fra buoni e cattivi, non sono mai troppo netti, i “cattivi” non sono personaggi secondari senza approfondimento psicologico, messi lì solo perché devono esserci: hanno le loro motivazioni, sono parimenti intelligenti e abili, fascinosi e, talora, anche amabili.

Il tono non è però pesante, c’è anche una componente comica, in cui gioca un ruolo l’eccentricità dei personaggi, che dà la gradevole impressione che l’autrice non voglia prendersi troppo sul serio: sono personaggi che cercano il proprio posto nel mondo, soffrono e le situazioni possono essere pericolose, ma la narrazione mantiene un tocco di divertimento.

Promuovo, quindi, a pieni voti il lavoro della scrittrice; lo stesso per me vale per il lavoro dell’illustratore. I personaggi hanno un character design molto efficace, sono tutti decisamente belli, gli uomini come le donne, i ragazzini come gli adulti, in modo più o meno convenzionale ognuno di loro esprime fascino. Il disegno è particolare, non è detto che piaccia a tutti: è sporco e duro, gli sfondi spesso sono appena accennati, ma anche per questo lo trovo molto adatto alla storia. Molto intrigante anche il "gioco" di corrispondenze fra il tratto usato per le iridi dei personaggi e il loro stato emotivo (spiegare di più sarebbe spoiler). Meno dichiarato (forse solo un'impressione mia) anche una sorta di "scherzo" grafico per cui ciocche di capelli o accessori vari (le cinture, le sciarpe, le felpe arrotolate in vita) che, qui e là, danno l’idea di essere quasi “propaggini animate”, quasi una sottile "suggestione furry".

Una formula che potrebbe andare avanti a lungo o terminare in pochi volumi, la cosa sarà - immagino - decisa dalle vendite, al momento non si vedono cali: un gruppo di nuovi personaggi introdotti proprio nel volume 15 testimonia che le idee, al momento, non mancano. Secondo me è una serie che merita una possibilità: un intrattenimento “leggero” ma ben fatto. Voto provvisorio, in attesa di vedere come si concluderà: 8,5.