Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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8.0/10
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Trasposizione animata del celebre manga shoujo di Akimi Yoshida pubblicato tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento, "Banana Fish" dello studio Mappa, si presenta come una rivisitazione in chiave moderna dell’omonimo fumetto, che fa dell’ambientazione in una grande metropoli e della guerra tra bande mafiose, i suoi punti di forza.

Nei bassifondi di New York, dominati da clan mafiosi di diversa nazionalità, c’è una banda e, in particolar modo, un leader, che sembra spiccare su tutti gli altri, il suo nome è Ash Lynx. Ash è il solito americano di bell’aspetto, dal carattere difficile e scontroso, e irrimediabilmente corrotto da un passato tormentato, segnato da abusi e violenze. La madre è non pervenuta e il padre lo ha ripudiato, motivo per il quale, ad occuparsi di lui è il fratello maggiore Griffin. La vita lo mette a dura prova quando, tornato dalla guerra, il fratello non è più la persona allegra di sempre. Sguardo perso nel vuoto, capacità motorie drasticamente ridotte e solo due parole pronunciate continuamente, Banana Fish, fanno di lui un vegetale. Deciso più che mai a salvare il fratello che lo ha cresciuto e educato, ecco che finisce la storia di Aslan Jade Callenreese e inizia quella di Ash Lynx. Le possibilità che gli offre la nuova vita al servizio del boss mafioso Dino Golzine gli permettono di formare il suo clan che, nel giro di poco tempo, ottiene il controllo dei bassifondi newyorkesi. Sparatorie e screzi tra bande sono all’ordine del giorno, ma ciò che gli interessa non è il potere, bensì scoprire il segreto di Banana Fish e cercare, magari, una cura per il fratello. E proprio mentre si sente vicino a scoprire qualcosa di più al riguardo, fa la conoscenza di un ragazzo giapponese, diverso da lui in tutto e per tutto, Eiji Okumura. Tra i due nascerà, ben presto, un’amicizia inconsueta, destinata a trasformarsi in altro e che conferma, ancora una volta e con mio grande disappunto, che gli opposti si attraggono.

La New York che fa da sfondo alla trama non è troppo diversa da quella che vediamo nei film o serie tv americane. Ogni giorno c’è una sparatoria, i conflitti tra bande vanno avanti senza che la polizia possa fare nulla per fermarli e la mafia gode di grande seguito. Eppure, il mondo di "Banana Fish" è tanto simile quanto diverso da quello descritto finora. Le sparatorie ci sono, ma ogni ora, piuttosto che ogni giorno. La polizia non solo non riesce a fermare i conflitti tra clan, ma non ci prova neanche, di fatto, la presenza delle forze dell’ordine è pari a zero nel corso di tutta la storia. Infine, la mafia gode di grande seguito non solo tra gli strati più bassi della società, ma anche presso i vertici politici. Insomma, tutto sembra essere amplificato e per uno scopo ben preciso, lasciare all’autore libertà incondizionata che, priva di ogni argine, porta a confusione totale e falle nel sistema. L’unica vera novità, rispetto alle immagini continuamente proposte, di questa New York ucronica, è l’inclinazione omosessuale e molestatrice, a tratti spaventosa e preoccupante, di tutti gli individui maschi di cui facciamo la conoscenza.

La storia che ci viene proposta può essere definita in tanti modi e il migliore, a mio modesto avviso, è confusionaria. Questo, però, non significa che sia tutto da buttare, anzi una prima buona parte dell’anime, che arriva fino alla quindicesima puntata, scorre bene dopo una partenza col freno a mano tirato, come è giusto che sia per ogni opera che si rispetti. La seconda parte, però, piena di incongruenze e falle, getta un’ombra nera come la pece su tutta la storia, fino ad allora ben gestita. E il problema di fondo è uno solo, il fatto che si perda di vista la questione principale, quella legata al Banana Fish. Scoperto il mistero, si va perdendo il perno centrale della storia, che finisce per risentirne maledettamente. Dal thriller politico, si passa al più semplice e americano dei polizieschi, dove a farla da padrona sono i continui spargimenti di sangue. Insomma, un’involuzione che fa di quest’opera un prodotto riuscito solo in parte.

Così come per la storia, anche i personaggi non sempre sono all’altezza della situazione. Nella maggior parte dei casi, mal gestiti e caratterizzati e, ad accompagnare, la solita impressione che, da un certo momento in poi, si sia persa la bussola. Il personaggio, a mio avviso, più oscuro di tutti è Papà Dino, il cui atteggiamento nei confronti di Ash oscilla continuamente tra amore paterno e odio parossistico scaturito da un velato, ma ben presente complesso di Laio. A conti fatti, gli unici due personaggi veramente ben caratterizzati sono Ash e Eiji, i due pilastri di una serie che, senza la loro presenza, sarebbe crollata come una qualsiasi costruzione a cui mancano i sostegni.

Insieme, Eiji e Ash formano una coppia anomala. Ash ha diciassette anni, Eiji ne ha diciannove, ma tra i due, è il primo a sembrare quello più adulto. Ash è stato costretto, sin da piccolo, a subire violenze di ogni tipo, per questo motivo, non si fida di nessuno. Eiji è cresciuto nell’agio, nel tranquillo e idilliaco Giappone. Ash è cresciuto imparando a comandare e impugnare una pistola, per il bene degli affari del padre adottivo. Eiji non sa neanche come è fatta un’arma da fuoco. Ash è cresciuto troppo in fretta e la spensieratezza non sa neanche dove sta di casa. Eiji è ancora un bambinone, pieno di allegria e speranze per il futuro. Eiji accanto ad Ash imparerà a crescere e proverà nuovamente l’ebrezza di sentirsi vivo; Ash accanto ad Eiji imparerà ad amare ed essere amato e che non tutti ci tendono la mano soltanto per i propri loschi fini. Due realtà diversissime, che si incontrano e imparano l’una dall’altra, ma soprattutto ci insegnano che l’amicizia è il più importante dei valori e ancora di salvezza nei momenti di difficoltà.

Infine, giudico positivamente sia il comparto grafico che, però, non eccelle mai, ma ci regala dei fondali stupendi, sia il comparto musicale che, invece, ho trovato di altissimo livello. Godibili le musiche che accompagnano le scene dell’anime, indimenticabili le opening e le ending, che ho apprezzato particolarmente.

Onestamente parlando, mi piacerebbe dare un voto superiore, ma alcuni errori sono troppo evidenti e grossolani per non essere “puniti”. Nonostante ciò, se siete disposti a chiudere un occhio quando serve, "Banana Fish" è una serie che vi consiglio con tutto il cuore.

6.5/10
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Nel 2011 Studio Bones decide di cimentarsi in un prodotto dallo stampo sovrannaturale-fantastico, una vicenda ambientata a partire dal 1924 e dagli avvenimenti storici non pertinenti alla realtà, modificati ad arte per imbastire un contesto che facesse da pericolante palcoscenico per un’avventura da cui, viste le premesse, ci si sarebbe potuto attendere molto di più.

A cavallo della situazione bellica più drammatica dei tempi moderni, l’attenzione della trama si concentra a Saubure, una piccola, immaginaria nazione al confine fra Francia, Italia e Svizzera, nel bel mezzo delle Alpi. In questo luogo inesistente, ma suggestivo si trova l’istituto “Santa Margherita”, una scuola dedicata esclusivamente a nobili rampolli: un edificio esageratamente elegante tanto da ricordare l’architettura vasta, abbracciante e solenne di Versailles, circondata da ettari di prati e colline, protetta dalle granitiche vette alpine ed eretta nei pressi di due torri più antiche (una delle due trasformata in sontuosa, massiccia biblioteca verticale dal misterioso sapore barocco). Questo istituto è frequentato da Kujo, figlio di militari giapponesi, venuto a Saubure – paese alleato del sol levante – per una formazione di tutto rispetto che lo dovrà catapultare, almeno così da programmi, nel futuro mondo aristocratico.
All'interno della smisurata, contorta, babilonica torre circolare adibita a biblioteca (dagli interni indecifrabili, le scaffalature concentriche, le scale a spirale e dai collegamenti che ricordano vagamente le ingannevoli prospettive Escheriane), vive pigramente – ben accorta dal non mostrarsi al resto degli studenti – una ragazzina di nome Victorique, creatura dall’aspetto fragile ma austero, dalla carnagione pallida, gli occhi che ricordano due limpidi smeraldi colpiti dal sole mattutino, i lunghissimi capelli biondi e lisci come seta, lo sguardo impassibile e la falsa aria da nobildonna di fine ottocento. La giovane - vera protagonista della vicenda assieme a Kujo - è solita indossare abiti ricercati dai sottili ricami gotici che rievocano un tardo barocco merlettato, un appeal apparentemente complicato che non rassegna tuttavia alcuna originalità, facendola apparire come l’ennesima “gothic lolita” generata dallo sconfinato, malizioso universo di fantasie nipponiche, un copia-incolla di trend già visti, tsundere senza mezzi termini, animata da un caratteraccio volubile ed insopportabile, ma capace di sfoggiare uno spirito di deduzione quasi alieno, correlato da un acuto – anzi, sarebbe il caso di dire sconvolgente – intelletto.

Le vibrazioni alla “Rozen Maiden” che la giovane emana svaniscono leste non appena l’anime tenta di decollare, proponendosi con una narrativa investigativo-poliziesca, una sorta di giallo che strizza l’occhio al sovrannaturale senza tuffarsi realmente in esso. I casi da sbrogliare, l’evoluzione della trama e i progressi di questa si sviluppano in brevi archi narrativi di due o tre episodi a volta, dove man mano vengono presentati tutti i personaggi secondari a partire da Cecile, insegnante dell’accademia imbranata e infantile, una delle figure più insulse ed insopportabili di tutta la storia tanto quanto la sua voce da gallina strozzata: un’altra sorta di stereotipo adoperato dagli sceneggiatori come pallido tentativo di comicità, atto a smorzare le tensioni e le criticità delle vicende – spesso piacevolmente cupe e pervase da un thrilling appena abbozzato - che, a conti fatti, fallisce miseramente.
Se Cecile non funziona né come macchietta né come spalla a cui i protagonisti cercheranno di appoggiarsi, di tutt'altro stampo è Grevil, che per quanto d’aspetto risulti assurdo ed improbabile, finisce per rivelarsi il personaggio migliore di tutto l’anime: vestito elegantemente di bianco, dal ridicolo ed esagerato ciuffo biondo, si manifesta immantinente presentandosi come l’investigatore più rinomato di Saubure nonché ispettore di polizia del paese, anche se in seguito si scoprirà avere ben più segreti e scheletri nell’armadio di quanto si possa immaginare.

L’incipit fin troppo vago non riesce subito ad indirizzare lo spettatore verso una chiara direzione, e nonostante la piacevole presentazione dei personaggi principali, si comprende ben poco di come funzioni l’accademia.
A traino dei primi, farraginosi minuti però, il primo arco narrativo ci getta rapidamente nel mezzo dell’azione, così repentinamente da apparire un’inversione di rotta sia sbrigativa - come se ci fosse una qualche necessità di travolgere lo spettatore con eventi eclatanti, - sia inaspettatamente gradevole. La prima parte della storia ricerca quindi principalmente colpi di scena a breve termine, procede masticando situazioni concitate che la portano a trasformarsi in un giallo-thriller dai toni oscuri e minacciosi, dove sangue e macabri decessi non vengono risparmiati. Sebbene la poca chiarezza di alcuni passaggi sia atta a celare determinati punti cruciali che saranno svelati più avanti, la sensazione che ogni enigma sia proposto dapprima ad arte - con le giuste dosi di intrigo, mistero, suspense e inquietudine, - e poi si risolva in modi fin troppo banali o quasi illogici, si fa strada nella mente dello spettatore in maniera ripetuta e fastidiosa.
I casi da risolvere in cui, per un motivo o per l’altro, Kujo e Victorique vengono coinvolti, sono ben scritti ed egregiamente presentati, ma in risoluzione si rivelano di tanto in tanto semplici o poco credibili; fortunatamente tutto ciò non risulta una costante, ma nemmeno una rarità.

Se lo si osserva con distacco, Gosick si distingue, come anticipato, alla stregua di un prodotto investigativo dagli inevitabili toni sovrannaturali, capace sicuramente di attingere a piene mani dalle brillanti idee di Agatha Christie e soprattutto dal genio di Sir Arthur Conan Doyle, il tutto intrecciato ad un quadro storico in cui si sospetta che qualcosa di sconvolgente e drammatico (ed in parte ovvio) stia per accadere. Man mano che la storia si evolve, ecco emergere elementi storici differenti, complotti segreti, misteri trasversali ai noti eventi annoverati su tutti i libri di scuola; tutto ciò rende il prodotto decisamente intrigante e misterioso, invoglia il proseguo della visione per scoprirne l’esito, e crea una decisa aspettativa per una seconda parte in cui ci si aspetta un crescendo corposo e risolutivo.
Il vero punto debole di Gosick sta proprio nel non rispettare appieno tali premesse. Lo svolgimento dei misteri-thriller dei primi archi narrativi risulta generalmente altalenante, mai vertiginoso, se non in rarissime occasioni. Come dinanzi accennato, gli enigmi finiscono spesso per risolversi in ritagli d’elementare investigazione (che sembrano apparire ancora più semplici a causa della spiccata intelligenza di Victorique), ma il leit-motiv è sempre lo stesso: la trama manca di quella intrigante complessità e di quei picchi d’adrenalina che sembrano costantemente essere dietro l’angolo… ma mai si manifestano.
Altra pecca è una ridondanza narrativa di alcune vicende che parrebbero funzionali allo svolgersi della trama, ma che col senno di poi si rivelano uno sbiadito companatico.

Artisticamente discreto, Gosick si rivela un’esperienza visiva di spicco. Ad accompagnare le pieghe e i merletti di vesti ricercate vi sono spesso sfondi curati e prospettive di stampo quasi cinematografico. L’opening risulta godibile ma non indimenticabile, ricca di ricami in cui si respira il sapore di un’art-nouveau bagnata da un neo-gotico modaiolo e anacronistico; differente è la caratura della colonna sonora, di altissimo livello, capace di instillare inquietudine e cupi presagi durante l’arco di tutta la serie. I brani più profondi e sinistri rievocano tetre atmosfere di un thriller d’autore, il tutto tinto da elementi che suggeriscono un sovrannaturale imminente ma mai esplicito, mentre i brani più elaborati e melodici risultano toccanti ed indimenticabili.
Spesso la mimica dei personaggi risulta accentuata per marcare in modo netto reazioni ed emozioni anche se la qualità d’animazione non appare sempre impeccabile, ma si tratta di pecche di poco conto, quando si va a pesare il tutto sulla bilancia delle valutazioni.

La seconda metà dell’anime ha un netto miglioramento globale. Si percepiscono le vibrazioni del celeberrimo Fullmetal Alchemist a cui Gosick si ispira per un breve arco, ponte narrativo che permette di intrecciare diverbi e dubbi etici di un certo spessore, per poi scollinare per andare a concludersi sullo sfondo di quel che sarà il tanto atteso secondo conflitto mondiale.
Sebbene Saubure sembri un regno ispirato al principato monegasco ma dalle sfumature franco-austriache, nonostante gli spunti presi da numerosi romanzi gialli e thriller di fama immortale, e a fronte di una storia d’amore appena accennata e poco coinvolgente, il risultato finale ha il sapore di qualcosa di inconcluso, realizzato in maniera più che sufficiente ma che non riesce mai a decollare come avrebbe probabilmente meritato.
Consigliato a chi ama le storie d’investigazione con un tocco di sovrannaturale senza troppe pretese.
Dieci pieno all’acconciatura di Grevil.

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“Lupin III - Walther P38” è il nono special TV di Lupin, originariamente trasmesso nel 1997 e diretto da un ispiratissimo Hiroyuki Yano. Si tratta senza ombra di dubbio dello special finora più riuscito, che stacca nettamente i predecessori per qualità tecnica, profondità narrativa e atmosfera generale.

L’aspetto più immediato e certamente uno dei più apprezzabili di questo special è l’impressionante qualità tecnica e artistica messa in campo, alimentata da uno stile maturo che esalta i contorni più tetri della vicenda, e dai disegni, ricchissimi di dettagli. In linea con quest’estetica cupa e oscura, l’atmosfera che si respira durante il film è opprimente e, a tratti, inquietante. L’alone di mistero che circonda le vicende della Walther P38, l’isola covo della Tarantola e i pericoli affrontati da Lupin sono perfettamente tangibili. Per quanto concerne la trama, questo film è riuscito nel miracolo (considerando la banalità su questo fronte di alcuni special precedenti), di risultare interessante dall’inizio alla fine, con delle vicende molto più elaborate e con una tensione costante che questa volta lascia ben poco spazio alla componente comica del personaggio. Il Lupin di questo special è stato valorizzato pienamente, attraverso una storia che cerca di ricostruire una parte del suo passato a noi sconosciuta. Veramente ottimi i personaggi originali del film, meno entusiasmante invece l’utilizzo dei comprimari “classici”, ma questa volta si tratta di un sacrificio comprensibile, vista l’importanza e la profondità della trama principale.

In conclusione, questo nono special è stato pienamente all’altezza delle buone opinioni che da sempre sento in merito. Tecnicamente è una favola, per nulla lontano da alcune uscite cinematografiche precedenti. Lo stile grafico è impressionante e l’intensità della narrazione non lascia mai spazio alla noia. Un lavoro ben più ambizioso degli special precedenti, con un Lupin maturo, immerso in un’avventura spietata che non permette errori. Consigliato naturalmente agli amanti del franchise, ma in generale anche solo se siete alla ricerca di un thriller spettacolare e narrativamente ben costruito.