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5.0/10
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Attenzione: la recensione contiene lievi spoiler (ma forse questo è un bene)

Adoro la grigliata in famiglia: un momento magico in cui stare assieme mentre si pregusta, con la grelina che percuote sonoramente i nostri sensi, l'odore della carne sulla brace ardente. Se cotta a puntino, farà faville. Unico sfortunato è l’addetto alla cottura, costretto a seguire a più riprese i vari pezzi di carne onde scongiurare la cattiva riuscita del pasto. Chiacchiererà saltuariamente, ma lui ha una grossa responsabilità: salsicce, costato e braciole hanno diverse tempistiche, si richiede pertanto un’attenta ponderazione dei tempi di posizionamento sulla piastra, altrimenti il risultato sarà disastroso. In realtà non sono qui a dar lezioni su come abbrustolire la carne, ma voglio servirmi di questa rievocazione un po’ fuori contesto per fare un paragone: Ranjo Miyake, autrice di “PET”, manga da cui è stato tratta l’omonima serie anime nell’inverno 2020 da parte degli studio Geno e Twin Engine, è come un responsabile della grigliata che ha messo sulla brace svariati pezzi di carne, parecchio pregiati, ma li ha lasciati poi lì, a prendere fuoco in maniera casuale, riuscendone a portare a corretta cottura solo uno. Gli altri, ahimè, si son fatti carbone.

La storia di “Pet” è ambientata in Giappone, in particolare nel contesto mafioso (soprattutto quello cinese). Nella malavita vengono utilizzati i PET, umani “mentalmente” modificati in grado di alterare le emozioni/ricordi delle persone, al prezzo di costruire delle proprie valli e vette nella propria coscienza. Ovviamente, poiché portatori di un incredibile potere, vengono sfruttati dai più potenti malavitosi come strumento di repressione e controllo. I PET su cui l’opera getta l’attenzione sono Tsukasa, un ragazzo dalla personalità ambigua (a tratti bipolare), il giovane Hiroki, un PET tanto talentuoso quanto immaturo ed emotivo, e Satoru, il più coscienzioso dei tre e quindi motivato a fuggire dalla perfida macchina malavitosa nella quale si è trovato coinvolto. Gli ultimi due personaggi degni di nota sono Hayashi e Katsuragi: il primo è un PET che ha rinnegato le sue origini, il secondo è un crudele affarista dal triste passato.

La storia segue lo sviluppo psicologico di questi personaggi, approfondendone la psiche e facendoli agire all’interno di un background. Ed è proprio nell’ambientazione che sorge il primo grande problema dell’opera. La malavita, formata da yakuza e mafia cinese, non solo non viene presentata, ma non viene nemmeno delineata, generando nello spettatore una gigantesca confusione. I primi sei episodi, inutili ai fini della trama ma farciti di piccoli indizi tutti poi utili nel successivo sviluppo dei personaggi, sono caotici e mal sceneggiati. I personaggi non vengono subito delineati, la sceneggiatura oscilla tra fasi d’introspezione decontestualizzata e scene d’azione di cui si ignora la sinossi. Molto spesso non si sa dove la storia voglia andare a parare. Il risultato è che quando le cose, al settimo episodio, cominciano a prendere una piega ben definita, ci si trova costretti a fare un rewatch, e talvolta neppure basta. Molte cose, poi, vengono in realtà chiarite solo nelle fasi finali della storia. Questo non è un colpo di scena, è cattiva scrittura. La storia poi prende una piega che sfocia nel conflitto d’interessi: Tsukasa vuole vendicarsi di Satoru perché fondamentalmente geloso, e questo livore lo conduce pian piano alla follia; Hiroki comprende il marcio della mafia, ma non vuole uscirne, perché teme di perdere Tsukasa, suo unico amico e legame affettivo; Satoru viene colpito alle spalle da Tsukasa, trovandosi così invischiato in un complesso complotto dal quale vorrebbe semplicemente fuggire; Hayashi viene colpito a tradimento da Tsukasa; Katsuragi sembra servire la mafia, ma poi si scopre esserne una vittima. Tutto questo porta a un finale agrodolce, con la morte di Katsuragi, e l’annientamento cerebrale di Hayashi e dello stesso Tsukasa, che si redime solo l’ultimo episodio. Solo Hiroki e Satoru riescono effettivamente a salvarsi, ma, quando la trama sembra pronta a spiccare il volo, con una prevedibile ribellione dei PET ai loro padroni, ecco che arriva la fregatura: fine. Avete capito benissimo, l’opera finisce completamente a caso, proprio nel momento in cui ci doveva essere il cambio di rotta, senza dare un finale a nessuno dei personaggi, senza chiudere nessun arco, riuscendo solo a definire la psicologia di quel povero di Hayashi. Tanti fiumi di parole sprecati per introdurre una storia senza fine. Per fare un esempio, è come se “Il signore degli anelli” si fosse fermato alla vittoria del fosso di Helm. Un bello quanto piccolo traguardo, ma certo non la conclusione. Mosso dalla rabbia, per un momento mi sono cercato il manga, convinto che l’unica risposta plausibile fosse una pessima gestione del materiale da parte dello studio d’animazione. Invece, cosa scopro? L’adattamento è fedele, e giù di imprecazioni all’autrice. Non concludere un’opera in questa maniera, per quanto mi riguarda, è un’offesa verso gli spettatori che hanno dedicato del tempo prezioso per vedere un qualcosa di incompiuto. Me la prendo anche con lo studio d’animazione, che poteva davvero a questo punto abbozzare un finale, vista la scellerata scelta dell’autrice. E invece no, tutto fermo a metà. Una simile scelta non solo arreca fastidio, ma annulla tutto lo sviluppo psicologico delineatosi fino a questo momento (sviluppo tra l’altro non sempre coerente ma già occasionalmente forzato, quindi non perfetto).

Graficamente l’anime è scarso, martoriato da problemi di produzione che ne hanno posticipato l’uscita di diversi mesi. Le OST sono assenti, cosa che non aiuta a superare i tanti momenti di noia dei primi episodi. Opening ed ending sono molto belle e, a mio giudizio, sprecate per una simile opera “mozza”.

Concludendo, “Pet” è una serie ignobile, bocciata quasi su tutta la linea. Parte con tematiche e aspettative altissime, e ne porta a segno giusto una. Si sarebbe dovuto articolare in almeno trenta-quaranta episodi, vista la carne sul fuoco, ma chiude il tutto con un imbarazzante non finale. Soffre di un compartimento tecnico carente e, tirando le somme, fa solo perdere tempo allo spettatore. Io, invece, nel corso di questa lettura spero di avervi fatto un favore, disincentivandovi alla sua visione: fidatevi, potete impiegare quelle quattro ore in maniera più produttiva.