Nella serata di venerdì al Lucca Comics & Games 2016, presso il cinema Astra di fronte ad una folta platea di appassionati, è stato proiettato uno dei lungometraggi più attesi di questa stagione cinematografica, targato Studio Ghibli e annunciato da un lungo tam tam sul web: La tartaruga rossa.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, era il 2014 quando i fan dello Studio Ghibli di tutto il mondo rimasero scossi da vari rumors secondo i quali la loro amata casa di produzione avrebbe chiuso i battenti per sempre. La vicenda in realtà era il frutto dell’equivoco di un blogger e probabilmente il prodotto di una traduzione troppo zelante delle osservazioni fatte dal produttore Toshio Suzuki, che aveva parlato di una "pausa" nella produzione di anime dopo l'uscita di Quando c'era Marnie (2014) di Hiromasa Yonebayashi. Con quest’ultimo film in pareggio al box office, un Hayao Miyazaki ufficialmente in pensione e uno staff di animatori a piede libero, i fan disorientati si erano chiesti che futuro avrebbe potuto avere lo Studio Ghibli. La Tartaruga Rossa risponde ad alcuni di questi dubbi, anche se è una risposta parziale e potenzialmente fuorviante. Il film rappresenta infatti una sorta di anomalia nel catalogo Ghibli, ai più apparirà familiare ma diverso, anche perché si tratta del primo lungometraggio dello studio prodotto all’estero e frutto di una cooperazione internazionale: diretto da un regista olandese, Michael Dudok de Wit, co-sceneggiato dal regista francese Pascale Ferran, animato in Francia dalla Wild Bunch, e fruibile a tutte le latitudini per via della totale assenza di dialoghi.
 
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Tutto nasce quando Toshio Suzuki, dopo la visione del cortometraggio Father and Daughter, già premio Oscar nel 2000, decide di avvicinare il regista Michael Dudok de Wit con la proposta di realizzare un lungometraggio insieme. Il risultato è uno dei film meno commerciali della Ghibli, ma è anche uno dei più universali, un racconto semplice ed elegante con la purezza di un breve poema.

Un giovane uomo, sopravvissuto a un naufragio e sperduto su uno scoglio desolato in mezzo all'oceano, tenta ostinatamente di fuggire costruendosi delle zattere improvvisate, ma ogni volta che comincia ad allontanarsi dall’isola una tartaruga rossa lo prende di mira colpendo la barca come un ariete e mandandola in frantumi. Quando gli si pone la possibilità di vendicarsi sulla misteriosa creatura, questa si trasforma in una bellissima donna che si unisce a lui come compagna sull'isola deserta.

La sottile metafora non è evidente, ma si svela solo dietro un appassionato e sincero sguardo sull’intimo rapporto uomo/natura, in un mix di avventura e isolamento, e da questo punto di vista La tartaruga rossa è piuttosto convincente, descrivendo un mondo selvaggio che riserva al contempo bellezza e crudeltà. Nessun prologo o titoli di sorta, non sappiamo in che epoca è ambientata la storia: nella scena di apertura il nostro anonimo eroe è scaraventato in mezzo a onde mostruose durante una tempesta che infuria con vera e propria violenza, eppure altre insidie di gran lunga maggiori attendono il novello Robinson Crusoe. Dietro la sua rappresentazione a prima vista idilliaca e generosa, l'isola dispensa doni ma anche pericoli mortali.

Alcune sequenze hanno un gusto particolarmente realistico, quasi documentaristico. Emblematica la sequenza in cui una tartarughina non riesce a raggiungere il mare e viene trascinata via dai granchi: una morte tragica diventa così una cena abbondante. Presto però la storia evolve in qualcosa di più misterioso e meditativo, vira sul piano del surreale e si impregna di una sostanza mitica e fantastica. La narrazione non tradisce nessuna specifica estrazione, piuttosto attinge a un complesso e ricercato coacervo di letteratura e folklore, fra cui si potrebbe tentare di riconoscere la seminale raccolta di storie di fantasmi giapponesi a cura di Lafcadio Hearn (Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things), quest’ultimo aspetto dovuto probabilmente all’influenza di Isao Takahata in qualità di produttore artistico del progetto. Anche se non c'è una sola parola di dialogo nell’arco degli 80 minuti di pellicola, il racconto pone grandi domande (circa l'ambizione e l'accettazione) e la bellezza primordiale emerge da ogni fotogramma.
 
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L’ambientazione si svincola da qualsiasi epoca o contesto storico, lasciando galleggiare l’azione nell’eterno regno della leggenda pura. Gli scenari sono in parte modellati sull’isola di La Digue alle Seychelles, ma al contempo sfoggia lussureggianti di foreste di bambù, come se una parte di Giappone fosse stata trasportata nel bel mezzo dell’Oceano Indiano in un misto di fascinazioni esotiche. Dudok de Wit narra la sua avventura attraverso abili ed essenziali tagli di montaggio, senza l'aggiunta di particolari superflui o ridondanti, in una sorta di minimalismo registico che punta al cuore del racconto. Il film diventa più episodico nella seconda parte, non senza colpi di scena, ma nei minuti finali la trama principale torna prepotentemente in primo piano con una scena conclusiva di dolorosa e struggente malinconia.

Da un punto di vista artistico il film unisce l’artigianalità del disegno manuale con l’animazione al computer, mescolando tecniche e stili artistici orientali e occidentali, per esempio l’intricato ricamo del fogliame sugli alberi è il frutto di un minuzioso lavoro di calligrafia, ma il fruscio del vento che lo fa stormire, così come la pioggia ed altri effetti atmosferici è frutto della CGI. Si combinano vaporosi sfondi a carboncino e ad acquerello con uno spartano character design nel cui tratto si individua una evidente discendenza europea, uno stile di disegno alla Hergé (il creatore di Tintin), più evidente nei dettagli anatomici degli occhi e del naso, mentre la rigorosa composizione delle inquadrature rimanda al mondo fluttuante delle stampe giapponesi Ukiyo-e. Ogni fotogramma ha una sua valenza estetica a sé stante e potrebbe essere stampato e appeso a una parete per la raffinatezza esecutiva e l’estrema cura del dettaglio. Il risultato complessivo è una sequenza di immagini al contempo viscerali ed eteree, che riescono a far immedesimare lo spettatore nei panni di un protagonista in fase di stallo, mai del tutto sicuro di ciò che è reale e di ciò che è immaginato.
 
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A incorniciare il tutto un’intensa colonna sonora, firmata da Laurent Perez Del Mar, che non fa certo rimpiangere le altissime vette emotive già raggiunte da Joe Hisaishi. Merita una menzione, nelle prime fasi di esplorazione dell'isola, la scena in cui l’uomo scivola e cade in una insenatura rocciosa apparentemente senza via d'uscita, la sua unica salvezza è immergersi in profondità e sgusciare attraverso una stretta apertura sottomarina. In questo frangente l’incalzare sinistro della musica per violino da parte del compositore ha un effetto particolarmente drammatico, aggiungendo una tensione claustrofobica e asfissiante che mozza il fiato allo spettatore in sintonia con il protagonista che soffoca lentamente.

Probabilmente gli appassionati che si aspettano un altro Ponyo sulla scogliera rimarranno un po’ delusi, eppure La tartaruga rossa si intona al canone Ghibli molto più di alcuni film offerti negli ultimi anni da alcuni pallidi aspiranti eredi di Miyazaki. Dudok de Wit si muove con disinvoltura negli stessi territori emotivi di Miyazaki e Takahata, riuscendo a creare lo stesso mix irresistibile di meraviglia e desiderio, senza scimmiottarli ma usando un linguaggio del tutto singolare. Dopo il premio Oscar per il corto Father and Daughter, l’olandese si conferma un regista di animazione di primissimo piano. In uno scenario dell’intrattenimento cinematografico dominato da invincibili supereroi, mirabolanti esplosioni e grandinate di proiettili, La tartaruga rossa getta una ventata di aria fresca, una scossa di vita, e offre una delle più gratificanti visioni dell'anno.
 
 
La tartaruga rossa affascina e conquista come una favola immortale, celebra la natura primordiale e abbacinante e, allo stesso tempo, narra una storia di sopravvivenza compassionevole e dolorosamente bella, e infine ci ricorda che lo scopo ultimo della grande macchina della natura è sempre la vita.