Negli ultimi anni per me è diventato sempre più difficile parlare di Mamoru Hosoda, e l'uscita di un suo nuovo film, più che un momento di gioia, è diventato un momento di conflitto interiore.

Avevo amato Digimon: Our War Game pur essendo troppo giovane e inesperto per chiedermi chi ne fosse l’artefice, il regista mi aveva poi incuriosito con La Ragazza che Saltava nel Tempo, stregato con Summer Wars e definitivamente conquistato con Wolf Children, diventando la voce maschile dell'animazione giapponese a cui più sono legato (quella femminile è Naoko Yamada, ndr). Mi ero innamorato del suo cinema, delicato e tranquillo, fatto di pochi temi legati alla sfera familiare, all'affermazione personale e al contrasto tra "vecchio" e "nuovo", che spazia costantemente tra la dimensione del fantastico e quella reale. Delle sue pellicole scandite da ritmi lenti e riflessivi sia nella sceneggiatura, con una grande attenzione nel presentare personaggi quanto più umani possibile, che nello storyboarding, capace di alternare pochi momenti più dinamici e concitati a deliziose scene di genere e sequenze lunghissime con movimenti di macchina ponderati e leggiadri, a volte appena accennati.

Ma il legame instauratosi tra i suoi film e me ha iniziato a scricchiolare già con The Boy and The Beast, pellicola che, seppur apprezzata, mi sembrava aver tradito quella che pensavo fosse la cifra stilistica di Hosoda. Poi Mirai, con le sue camere 3D, le sue scene dal ritmo frenetico e un immaginario così diverso mi aveva addirittura fatto domandare se si trattasse veramente dello stesso regista, lo stesso che mi aveva fatto piangere con un lentissimo panning orizzontale ad inquadrare una famiglia riunita in una casa di campagna, per poi fermarsi su l'incrociarsi delle dita di due adolescenti.

Dal 17 marzo con una programmazione regolare è al cinema l'ultimo lavoro di Mamoru Hosoda, distribuito da Anime FactoryBELLE. E la domanda che mi sono posto, sedendomi sulla poltroncina del cinema della mia città, è stata "quale Hosoda vedrò oggi?"

Ecco, diciamo che BELLE è un po’ una via di mezzo.
 
 
Il film segue le vicende di Suzu, una studentessa liceale di 17 anni che, orfana di madre, vive col padre in un villaggio rurale nella prefettura di Kochi nel quale la ragazza si sente prigioniera. Un giorno Suzu entra in "U", una realtà virtuale di cinque miliardi di membri online, nella quale può fare finalmente ciò che ama e che non fa da quando è morta la madre: cantare. Suzu diventa Belle, una cantante che presto acquisisce fama mondiale. Belle incontra presto un drago misterioso con il quale intraprende un viaggio ricco di avventure e amore alla ricerca di se stessa e di cosa vuole diventare.

BELLE è una pellicola a cavallo tra la fantascienza e lo human drama, che amalgama la dimensione cibernetica all’estremo realismo con cui dipinge i rapporti tra le persone. Il film verte attorno al processo di riabilitazione, di maturazione e di affermazione personale di Suzu, ragazza orfana di madre che deve superare il trauma della scomparsa della figura genitoriale a cui più era legata e uscire dalla stasi in cui è rimasta bloccata, per tornare a trovare la propria dimensione nel mondo e riuscire a ricostruire dei legami con le altre persone. Lo scopo del “viaggio” che sono i film di Mamoru Hosoda, come da lui stesso rivelato in più interviste, è incoraggiare lo spettatore a guardare avanti, a superare le difficoltà che incontra lungo la strada e ad affrontare la vita con positività, e personalmente credo che BELLE riesca alla perfezione in questo intento.

Grazie al solito manierismo hosodiano, fatto di piccoli gesti, inquadrature intense e dialoghi semplici e diretti, Suzu risulta un’adolescente realistica e credibile, con le sue problematiche e ansie tipiche di una liceale che solamente quando indossa la maschera di Bell è in grado di raggiungere le altre persone con la potenza della voce, anzi, più precisamente del canto, mezzo di comunicazione per antonomasia in grado di unire persone dai più disparati background culturali. Qua Hosoda sembra in un certo senso voler attingere dalla lezione di Macross, dove la musica si fa strumento di unione tra razze ed è in grado di toccare gli animi dei soldati nonostante la guerra che li separa. In maniera similare, in BELLE la musica diventa lo strumento di comprensione tra persone, in grado di creare dei legami veri tra loro. Questa tematica, legata al campo semantico della connessione che è il più caro ad Hosoda, mostra come instaurare relazioni con le altre persone sia fondamentale alla rivendicazione personale.

Al tema della connessione si lega il tema della maschera sociale e dell’alias che ci permette di “vivere veramente la nostra vita”, ovvero il punto cardine dell’esistenza stessa del mondo virtuale di U, che ovviamente serve al regista per esporre la sua visione su quanto concerne Internet e i social network e la loro importanza nella società odierna. Se da una parte, infatti, il tema centrale del film è l’affermazione di Suzu come persona, e tutta la pellicola e ogni suo elemento, personaggi compresi, ruota intorno a questo centro di gravità, le tematiche del cyberbullismo, delle implicazioni mondane dei social network, di come sia giovani che adulti vivono queste realtà e la loro pericolosità sono ovviamente fondamentali nel corpus narrativo e tematico che Hosoda vuole presentare allo spettatore. Nella pellicola viene fortemente riversata l’essenza stessa del regista, attraverso la sua esperienza di padre. Per dichiarazione di Hosoda in persona, infatti, BELLE è stato pensato come una sorta di lascito del padre per il futuro della figlia, con l’intento di “dare alla sua generazione il potere di prendere il controllo dei loro destini digitali, piuttosto che rannicchiarsi nella paura”.
 

I social network, lo sappiamo bene, sono un mondo confusionario dove amore e odio si alternano con una facilità disarmante, e la storia di Suzu/Bell all’interno di U ci racconta proprio questo. La narrativa solita delle vecchie generazioni riguardo Internet, però, sembra sempre prediligere la parte dell’odio, della pericolosità e della paura, come si vede nel rapporto tra Justin e il Drago. Le nuove generazioni sono cresciute con la rete e con i social network creati dalle generazioni precedenti, eppure queste continuano costantemente a dire loro quanto siano malevoli e pericolosi. Attraverso il film, Hosoda vuole andare contro a questa narrativa, mostrandoci come anche chi pensa di agire nel giusto può commettere azioni malvagie, e che Internet può sì essere un posto pericoloso, se usato male, ma può essere anche un bellissimo mezzo per connettere le persone e creare legami per il bene di tutti.

A quanto detto finora si aggiunge, neanche a dirlo, il chiaro rimando a La Bella e la Bestia della Disney, dato che l’intera sottotrama che si svolge all’interno di U va al di là del mero legame tematico per arrivare proprio all’omaggio e alla citazione uno a uno. Tutta la storia di Bell e del Drago è indistinguibile dalla favola occidentale, e se da una parte questa rivisitazione può affascinare lo spettatore, da un punto di vista strettamente narrativo risulta non propriamente necessaria, addirittura eccessiva.

Ed “eccessivo” è proprio il mio personale problema con BELLE come film. Hosoda ha decisamente voluto mettere troppa carne al fuoco, lavorando per accumulo anziché, come in passato, per sottrazione. Tanti personaggi, ma troppo abbozzati, tanti concetti, ma poca sostanza, tanti rimandi stilistici, ma troppo fini a sé stessi: per questo il film risulta a tratti stucchevole, a tratti ridondante. Hosoda carica fin troppo il film a livello tematico, ma la sceneggiatura non riesce a stare al passo. Se infatti ciò che vuole comunicare il film arriva allo spettatore in modo chiaro e potente, il modo in cui la trama si sviluppa è invece eccessivamente frammentato e contorto, e la sensazione che molti elementi, a partire dai personaggi di contorno, siano stati inseriti a forza per far quadrare il tutto nel finale per me è stata forte. È proprio per questo motivo che trovo BELLE una via di mezzo tra l’Hosoda che amo, quello fino a Wolf Children compreso, per intendersi, e quello che mi perplime. E non è certamente un caso se questo “cambiamento” è avvenuto precisamente in concomitanza con la fine della collaborazione con la sceneggiatrice Satoko Okudera, che si era occupata de La Ragazza che Saltava nel Tempo, Summer Wars e Wolf Children: Mamoru Hosoda è indubbiamente un regista magnifico, ma come sceneggiatore, almeno fino ad oggi, ha dimostrato di avere ancora molti limiti.

L’altro problema, questa volta puramente tecnico, di questo film è che, per gli standard qualitativi cinematografici dei suoi anni, la computer grafica, sia in sé che nel suo utilizzo, è imbarazzante. U è artisticamente un mondo molto affascinante grazie alla creatività di Eric Wong, ma i modelli usati per gli avatar rientrano meramente negli standard di una produzione anime televisiva, decisamente troppo, troppo poco per un prodotto cinematografico di questo livello. Se nelle scene in cui la camera è fissa e molto vicina ai personaggi questo problema viene un po’ smorzato, nel momento in cui quest’ultima si allontana un po’ per fare un campo largo e gli avatar iniziano a muoversi, il risultato è veramente pessimo. Questo problema si pone ogni volta che si entra in U, e considerando che questo mondo virtuale copre almeno metà dello screentime… è molto grave. Fortunatamente, quando si torna nella dimensione reale, la bellezza dei paesaggi rurali e urbani e il meraviglioso modo del regista di usare la camera ci fanno per un po’ dimenticare la CG.

Mi sento invece in dovere di chiudere questa analisi elogiando la meravigliosa colonna sonora, vero punto di forza di questo film. Le canzoni, interpretate da Kaho Nakamura, sono eccezionali, e la soundtrack realizzata da Ludwig Forssel, noto per le sue tante collaborazioni con Hideo Kojima, affiancato da Taisei Iwasaki e Yuta Bandoh è decisamente evocativa e suggestiva.
 
 
Tirando le somme, BELLE risulta un film che segue alla perfezione i canoni dell’intrattenimento di massa, che offre allo spettatore un buono spettacolo con la sua storia di maturazione personale, ma al contempo risulta tanto affascinante, reale e tangibile da risuonare in qualsiasi tipo di pubblico: dai più piccoli che resteranno incantati per il suo aspetto più fiabesco, agli adolescenti che ritroveranno in Suzu un personaggio specchio delle proprie ansie, per arrivare agli adulti che potranno rivivere la magia nostalgica del “classico Disney” affiancata però dalla tematica del mondo internettiano molto attuale e sicuramente di loro interesse. BELLE, come d’altronde tutte le pellicole del regista, riesce quindi ad uscire dal cerchio d’interesse della nicchia di appassionati di anime per diventare un film universale, capace di toccare le corde del pubblico indipendentemente da genere ed età, perché fondato su un realismo intrinseco e universalmente comprensibile. D’altro canto, però, evidenzia ancora la fragilità di Hosoda come sceneggiatore, e a livello di pura qualità tecnica non è all’altezza di una produzione della sua risma. È un film che di per sé consiglierei assolutamente e a chiunque, senza ombra di dubbio… ma se mi venisse chiesto un film di Mamoru Hosoda da recuperare per scoprire il regista, non sarebbe di certo questo.